Cambio di destinazione d’uso: rientra tra i servizi sociali l’utilizzo del bene per nido e scuola materna

Cambio di destinazione d’uso: rientra tra i servizi sociali l’utilizzo del bene per nido e scuola materna

 

Cambio di destinazione d’uso: rientra tra i servizi sociali l’utilizzo del bene per nido e scuola materna

Il comune di Scafati aveva annullato gli effetti di una segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) presentata da un privato per cambiare, senza opere edilizie, la destinazione originaria del bene, da abitazione di tipo economico (A/3) ad uffici e studi privati; in particolare, nel caso controverso l’interessato intendeva adibire il locale ad asilo nido e scuola materna. Di seguito quanto viene stabilito dal Tar Campania, sez. II, sentenza 4 marzo 2019 n. 361

Il comune ha motivato l’annullamento della SCIA sulla base dell’asserito contrasto fra il cambio di destinazione d’uso richiesto – inteso dall’amministrazione per svolgere un’attività di carattere commerciale – ed una disposizione delle Norme tecniche di attuazione al Piano regolatore comunale (art. 45) nonché di una Delibera del consiglio comunale. Secondo la disciplina urbanistico-edilizia comunale, siffatto cambio, relativamente alla zona di riferimento, è infatti ammesso esclusivamente per “…Servizi sociali, assistenziali e religiosi di proprietà e/o gestione privata”, tra i quali, secondo l’interpretazione assunta dall’amministrazione, non rientrerebbe una scuola privata d’infanzia.

Il problema che quindi si è posto nel caso controverso è se – in senso contrario all’avvio dell’amministrazione – la destinazione del bene ad asilo nido e scuola materna possa rientrare nell’ambito dei servizi sociali.

La destinazione d’uso

In ambito edilizio, la destinazione d’uso indica l’utilizzo funzionale di un bene. Essa costituisce un vincolo condizionato, principalmente da due fattori:

– la disciplina della zona in cui il bene è collocato,

– la tipologia del fabbricato.

L’uso è infatti un elemento che incide direttamente sulla gestione del territorio e sul carico urbanistico e, pertanto, richiede il ricorso a specifiche discipline.

Nel caso in cui un bene abbia più usi, il criterio discretivo è dato dalla prevalenza della destinazione.

Si distingue tra cambio di destinazione d’uso mutamento (o cambio) d’uso; nell’ambito della prima categoria, tra cambio di destinazione d’uso strutturale (o materiale) e cambio di destinazione d’uso funzionale.

Ricorre il cambio di destinazione d’uso, qualora si destini il bene per un utilizzo diverso da quello originario e tale nuovo utilizzo rientri in una categoria funzionalmente autonoma rispetto all’uso previsto dallo strumento urbanistico.

Ricorre invece il mero mutamento d’uso, allorché il diverso uso sia compatibile con la destinazione originaria che la disciplina urbanistica consente per quel bene.

Nell’ambito poi del cambio di destinazione d’uso occorre distinguere tra cambio d’uso strutturale (o materiale) cambio di destinazione d’uso funzionale: il cambio, nel primo caso, avviene tramite opere edilizie; nel secondo, quello funzionale, si attua senza interventi materiali.

Poiché, come sopra accennato, il cambio può rivestire effetti rilevanti per l’assetto urbanistico e per il territorio, non sempre lo stesso è compatibile con la disciplina urbanistica.

L’art. 10, comma 2, d.p.r. n. 380/2001 (Testo unico edilizia) affida alle Regioni il compito di stabilire con legge quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti sono subordinate a permesso di costruire ovvero a SCIA. In assenza della disciplina regionale, il mutamento meramente funzionale è libero; lo stesso quindi non richiede alcun titolo autorizzativo proprio perché non è necessario alcun intervento edilizio.

La sorveglianza sulla destinazione d’uso degli immobili è prevalentemente a tutela della ripartizione del territorio comunale per zone (cd. zonizzazione) operata dallo strumento comunale di programmazione urbanistica generale (piano regolatore o piano urbanistico), ripartizione che garantisce il mantenimento – per ciascuna porzione del territorio – delle finalità perseguite dallo strumento urbanistico.

Vi è da considerare, inoltre, che la stessa normativa statale regolamentare sugli standards, riposta nel decreto ministeriale n. 1444/1968, ancora vigente, ha diviso il territorio comunale in zone territoriali omogenee. Il riparto è proprio in base all’uso che, in termini edilizi, è attribuito a ciascuna zona (residenziale, non residenziale, industriale, agricola). È appena il caso di ricordare che la suddivisione del territorio in relazione all’uso comporta considerevoli impatti sul valore economico, è quindi sulla qualità, dell’area e dei beni in essa situati. Per questa ragione, mentre in origine il legislatore ha focalizzato l’attenzione esclusivamente verso i cambi di destinazione strutturali, ossia quelli che si realizzano attraverso un intervento edilizio, in seguito, ha valorizzato anche i cambi d’uso funzionali i quali, pur non richiedendo alcuna modifica su strutture e forme del bene, sono apparsi altrettanto rilevanti sull’assetto urbanistico.

In materia, la questione nevralgica è riconducibile alla variazione dei carichi urbanistici e quindi alla necessità di adeguamento degli standard che i cambi d’uso, anche in assenza di opere, possono originare.

È proprio sulla base di questa esigenza che va letta l’importante modifica, in materia, introdotta dal d.l. n. 133/2014, insieme a quella, non meno rilevante sotto il profilo economico-sociale, della possibilità di recupero di zone degradate o con edifici “dismessi”.

Più precisamente, l’art. 17, comma 1, lett. n) d.l. n. 133/2014, convertito dalla l. n. 164/2014 ha inserito l’art. 23-ter nel corpo del d.p.r. n. 380/2001. La disposizione, rubricata “Mutamento d’uso urbanisticamente rilevante”, ha l’obiettivo di uniformare le differenti normative regionali e semplificare l’applicazione della disciplina. A questo fine, l’art. 23-ter, al comma 1 — nel fare salve diverse previsioni delle leggi regionali — introduce le seguenti cinque categorie funzionali:

1) residenziale;

2) turistico-ricettiva;

3) produttiva e direzionale;

4) commerciale;

5) rurale.

La norma introduce il criterio generale, che può chiamarsi di “omogeneità funzionale economica”, secondo cui, ai fini del carico urbanistico ed a prescindere dal compimento di opere edilizie, è rilevante il cambio o mutamento di destinazione d’uso dell’immobile o della singola unità immobiliare, solo se questo comporti il passaggio da una categoria all’altra tra quelle sopra menzionate.

Il comma 2 fissa altresì il c.d. criterio della “prevalenza”, per il quale la destinazione d’uso di un fabbricato o di un’unità immobiliare è quella prevalente in termini di almeno il 50,1% di superficie utile.

Infine, il comma 3 detta una norma di chiusura nel punto in cui demanda alle Regioni il compito di adeguare la propria legislazione ai principi contenuti nell’art. 23-ter medesimo, entro novanta giorni dalla data della sua entrata in vigore. Decorso tale termine, trovano applicazione diretta le previsioni in esso contenute.

È possibile modificare la destinazione d’uso di un immobile tramite opere ed interventi edilizi realizzati sulla base di una semplice SCIA qualora la nuova destinazione rientri tra quelle “compatibili”.

Si rammenta che, prima dell’innovazione legislativa di cui al d.l. n. 133/2014, la disciplina dei mutamenti d’uso era contenuta in due articoli del Testo unico per l’edilizia:

  1. l’art. 10, comma 2, che attribuisce alle Regioni il compito di stabilire quali mutamenti di destinazione d’uso, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, sono subordinati a permesso di costruire o a SCIA, con previsione comunque del permesso di costruire per i cambi d’uso connessi ad opere di ristrutturazione edilizia nei centri storici, ai sensi del comma 1, lett. c).
  2. l’art. 23, comma 1, lett. a) in virtù del quale è variazione essenziale al progetto approvato, il cambio di destinazione d’uso che implichi variazione degli standard previsti dal D.M. 2 aprile 1968 n. 1444.

L’intervento legislativo è quindi significativo perché, in sintesi:

— costituisce un cambio di passo rispetto al rigido schema tradizionale, elaborato dal noto d.m. n. 1444/1968, della ripartizione del territorio comunale in sei zone ben definite;

— individua cinque aree connotate dalla spiccata rilevanza della “funzione” e non più dalla struttura esistente (le prime tre zone dell’art. 2 del d.m. n. 1444/1968 sono caratterizzate da una determinata qualità e densità insediativa, esistente o non esistente, (cfr. zona C) al momento della pianificazione);

— esclude le zone a funzione pubblica (attualmente zone F), essendo la normativa rivolta a regolare e favorire l’edilizia privata.

Il d.l. n. 133/2014 non disciplina la pianificazione urbanistica, la quale deve tenere conto anche delle aree pubbliche, ma l’attività edilizia di soggetti che chiedono il titolo abilitativo utilizzando aree di proprietà privata. Ciò è importante perché le categorie menzionate dall’art. 23-ter d.p.r. n. 380/2001 non richiedono a monte una localizzazione ed una conseguente disciplina pianificatoria ma semplicemente un’operazione di qualificazione mirata del singolo edificio o della singola area.

Il cambio di destinazione d’uso strutturale

Con riferimento al titolo edilizio eventualmente richiesto (permesso di costruire, SCIA, Comunicazione inizio lavori asseverata-CILA), il cambio di destinazione d’uso strutturale segue la tipologia prevalente dell’intervento di cui costituisce uno degli strumenti di realizzazione. Il caso di scuola è costituito dal restauro e risanamento conservativo che consente il mutamento di destinazione purché compatibile con la natura del fabbricato. La stessa ristrutturazione comporta spesso un mutamento di destinazione.

In linea generale, il permesso di costruire è richiesto laddove il cambio di destinazione d’uso, comunque compatibile con la zonizzazione fissata dallo strumento urbanistico, produca un’alterazione degli standards con riflessi sul carico urbanistico.

L’art. 10, comma 1, lett. c) prescrive il permesso di costruire per le ristrutturazioni edilizie che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso.

La giurisprudenza ha chiarito che solo il cambio di destinazione d’uso fra categorie edilizie omogenee non necessita di permesso di costruire, in quanto ininfluente sul carico urbanistico, mentre il cambio di destinazione, qualora intervenga tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee, integra una modificazione edilizia con incidenza sul carico urbanistico tale da imporre il permesso di costruire, indipendentemente dall’esecuzione di opere (Tar Napoli, sez. IV, 17.01.2011, n. 221). Per questa ragione, il cambio di destinazione d’uso da masseria ad albergo, con rilevanti opere di ristrutturazione, interviene tra categorie edilizie funzionalmente autonome e non omogenee e comporta, quindi, una modificazione edilizia rilevante sul carico urbanistico con l’esigenza di premunirsi del permesso di costruire (Cons. Stato, sez. V, 29.01.2009, n. 498).

La giurisprudenza ha valutato legittimo il diniego di permesso di costruire per una richiesta di cambio di destinazione d’uso da non abitativo ad abitativo di un immobile, qualora l’interessato non dimostri il rispetto degli standards previsti dalla disciplina urbanistica. Il cambio non sarà ammissibile, pertanto, nell’ipotesi in cui, nonostante l’assenza di incremento di volumetria, il lotto sul quale ricade il bene immobile abbia già esaurito la disponibilità volumetrica ad uso abitativo ammessa dallo strumento urbanistico comunale (TAR Cagliari, sez. II, 2.12.2009, n. 2001).

Integra mutamento di destinazione d’uso di un immobile la realizzazione al piano interrato di una scala d’accesso esterna, che produce la sostanziale modifica del piano da volume tecnico ad elemento da calcolare ai fini della complessiva volumetria dell’immobile; anche la modifica del seminterrato, da locale di sgombero e garage a locale per civile abitazione, va considerata cambio strutturale di destinazione d’uso laddove l’esecuzione dei lavori, sebbene di modesta entità, determini la creazione di un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente (Tribunale Pisa, 6 maggio 2009); per tale modifica è quindi richiesto il permesso.

Le opere interne e gli interventi di ristrutturazione edilizia, come pure quelli di manutenzione straordinaria, di restauro e di risanamento conservativo, necessitano del preventivo rilascio del permesso di costruire e non della semplice SCIA ogni qual volta comportino mutamento di destinazione d’uso tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico e qualora debbano essere realizzati nei centri storici, anche nel caso in cui comportino mutamento di destinazione d’uso all’interno di una categoria omogenea; ove non si realizzi un’alterazione dello stato dei luoghi non è tuttavia necessaria una nuova autorizzazione paesaggistica.

Il cambio di destinazione d’uso funzionale

Il cambio di destinazione d’uso meramente funzionale avviene in via formale senza esecuzione di opere, per comportamento concludente.

La nozione è di recente conio. L’esigenza di distinguerlo dal cambio di destinazione strutturale nasce nel momento in cui la legge n. 10/1977 (cd. Legge Bucalossi) ha indirizzato la disciplina anche nei confronti delle “attività comportanti trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio comunale” (art. 1). Il legislatore passava così da una regolamentazione rivolta alle costruzioni edilizie in senso strettamente materiale ad una che tendeva ad un più funzionale controllo sull’uso effettivo del territorio.

La nuova figura è stato oggetto di contrasto tra la giurisprudenza amministrativa e quella penale.

La prima, in via prevalente, riteneva che, per il cambio di destinazione d’uso funzionale, in assenza di opere visibili, non fosse necessario alcun titolo autorizzatorio.

Al contrario, la giurisprudenza penale tendeva comunque ad applicare le sanzioni penali, per violazione delle norme e delle prescrizioni degli strumenti urbanisti e dei regolamenti edilizi.

In seguito, l’art. 25, comma 4, l. n. 47/1985 ha demandato alle legislazioni regionali il compito di stabilire quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, dovessero essere subordinare a concessione, ovvero ad autorizzazione.

Come per i cambi di destinazione d’uso strutturale anche per quelli di carattere funzionale l’attuale norma di riferimento è l’art. 10, comma 1, lett. c) d.p.r. n. 380/2001.

La norma conferma il contenuto dell’art. 2, comma 60, l. n. 662/1996, ossia che le Regioni sono depositarie della disciplina dei mutamenti di destinazione d’uso, potendo parificare integralmente i mutamenti funzionali a quelli strutturali.

In mancanza di specifica normativa regionale, i cambiamenti di tipo funzionale sono liberi.

È evidente che l’introduzione dell’art. 23-ter TUE abbia dato un diverso rilievo al cambio di destinazione d’uso funzionale perché ciò che conta non è più e soltanto il compimento di opere edilizie strumentali al mutamento di destinazione, bensì l’omogeneità o meno tra le categorie funzionali di passaggio.

La soluzione del Tar Salerno

Il Tar Salerno ha ravvisato nella realizzazione di una scuola d’infanzia, lo svolgimento di un “servizio sociale privato” che quindi è compreso nell’ambito delle destinazione d’uso ammesse dalla norma comunale (nello specifico l’art. 45 NTA).

Questa conclusione appare tuttavia opinabile, posto che una scuola dell’infanzia privata, se indiscutibilmente adempie ad un ruolo vagamente “sociale”, sembra più proiettata al conseguimento di un utile e, quindi, dello scopo di lucro, elemento che la riconduce nell’ambito delle attività propriamente imprenditoriali e, quindi, commerciali, nelle quali il profilo sociale è del tutto secondario.

Sul punto il Tar ha però condiviso l’argomento di carattere logico prospettato dal ricorrente secondo cui non appare plausibile, sul piano interpretativo, una norma regolamentare comunale che consenta, da un lato, di realizzare attività commerciali e non, invece, l’esercizio di quelle attività di carattere sociale, che, al pari delle prime, appaiono comunque strumentali ai bisogni di una zona a vocazione residenziale, qual è quella interessata dal contenzioso.

Ma anche questa riflessione, in verità, non appare del tutto convincente.

La possibilità di un cambio di destinazione d’uso nella zona interessata per lo svolgimento di attività commerciali è consentito solo per gli immobili esistenti “a livello di piano seminterrato, piano terra e/o rialzato”. Ciò è stato possibile solo dopo l’adozione, nel 2000, di una specifica delibera del consiglio comunale, che – nel recepire l’art. 14, comma 2, della legge regionale Campania n. 1 del 2000 – aveva reso assentibile l’avvio di piccole attività imprenditoriali nei centri storici. Il tutto però limitato per il profilo urbanistico a quelle unità che si trovassero al piano seminterrato, piano terra o rialzato, ossia a diretto contatto con la strada e, che per questo, sotto il profilo logistico rendevano conciliabile la conduzione di un esercizio commerciale.

Ove si consideri non sussistente il ruolo “sociale” della scuola d’infanzia, non sarebbe possibile nemmeno assentire il cambio di destinazione d’uso per attività commerciale, posto che uno dei locali era collocato ad un piano diverso da quello contemplato dalla menzionata delibera.

Giurisprudenza

Tar Napoli, sez. IV, 17.01.2011, n. 221

Cons. Stato, sez. V, 29.01.2009, n. 498

TAR Cagliari, sez. II, 2.12.2009, n. 2001

Tribunale Pisa, 6 maggio 2009

Riferimenti normativi

Art. 10, comma 2, d.p.r. n. 380/2001 (Testo unico edilizia)

Art. 23-ter d.p.r. n. 380/2001

Decreto ministeriale n. 1444/1968

l’art. 14, comma 2, della legge regionale Campania n. 1 del 2000.

Tar Campania, sez. II, sentenza 4 marzo 2019 n. 361

 

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