CGUE, il limite del 30% del subappalto è troppo restrittivo e viola il diritto Ue
Limitare al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi, contrasta con la normativa europea in materia di appalti. Lo ha statuito la Corte di Giustizia Ue, con la “sentenza Vitali” del 26 settembre 2019 (causa C-63/18) confermando la fondatezza dei dubbi espressi dal TAR Lombardia in merito all’incompatibilità con il diritto Ue del limite generale del 30% per il subappalto, riferito all’importo complessivo del contratto (sia per i lavori, sia per servizi e forniture), previsto dal nostro Codice appalti (DLgs n. 50/2016). Il TAR lombardo aveva rilevato come questo limite impedisse “agli operatori economici di subappaltare a terzi una parte cospicua delle opere (70%)” e rendesse così più difficile l’accesso delle imprese, in particolar modo delle PMI, agli appalti pubblici. La Corte Ue ha invitato il legislatore italiano ad adottare misure meno restrittive per raggiungere l’obiettivo di evitare l’infiltrazione criminale negli appalti pubblici. La questione è stata sollevata a seguito della decisione di Autostrade per l’Italia SpA, quale amministrazione aggiudicatrice, di escludere la Vitali SpA da una procedura di aggiudicazione di un appalto pubblico.
Fatto
Con bando pubblicato nel mese di agosto 2016, le Autostrade per l’Italia hanno indetto una procedura ristretta per affidare, mediante gara, i lavori di ampliamento della quinta corsia dell’autostrada A8 tra la barriera di Milano Nord e l’interconnessione di Lainate, per un importo a base di gara pari a poco più di 85 milioni di euro, IVA esclusa.
Essendo stata esclusa dalla gara per avere superato il limite del 30% previsto, in materia di subappalto, all’art. 105, paragrafo 2, del D.Lgs. n. 50/2016 (Codice appalti), la società Vitali ha proposto dinanzi al TAR per la Lombardia ha deciso di un ricorso diretto, in particolare, alla sua riammissione alla procedura.
Con sentenza parziale n. 28 del 5 gennaio 2018 il TAR ha respinto tutti i motivi dedotti dalla Vitali a sostegno del suo ricorso, salvo quello secondo il quale il limite del 30% in materia di subappalti, previsto dal diritto italiano, non sarebbe conforme al diritto dell’Unione.
In particolare, secondo il TAR Lombardia, questo limite quantitativo sarebbe stato in contrasto con gli articoli 49 e 56 TFUE, con l’art. 71 della direttiva 2014/24 nonché con il principio di proporzionalità.
Giurisprudenza italiana amministrativa sui limiti in tema di subappalto
Nella sentenza parziale n. 28/2018, il TAR Lombardia ha richiamato la pronuncia del Consiglio di Stato che riconosce al legislatore italiano la possibilità di porre legittimamente, in materia di subappalto, limiti di maggior rigore rispetto a quelli previsti dalle pertinenti disposizioni del diritto dell’Unione, laddove essi siano giustificati, da un lato, alla luce dei principi di sostenibilità sociale e, dall’altro, in considerazione dei valori declinati dall’art. 36 TFUE (tra cui, l’ordine e la sicurezza pubblici).
Il TAR Lombardia, però, ritiene che la previsione di un limite generale del 30% per il subappalto, con riferimento all’importo complessivo del contratto, possa rendere più difficoltoso l’accesso delle imprese (in particolare, delle PMI) agli appalti pubblici, così ostacolando l’esercizio della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Il nostro ordinamento fissa questo limite in maniera astratta in una determinata percentuale del contratto, a prescindere dalla possibilità di verificare le capacità di eventuali subappaltatori e senza menzione alcuna del carattere essenziale degli incarichi di cui si tratta. Da ciò nasce per l’appunto la domanda pregiudiziale posta ai giudici della Corte di Giustizia.
Decisione della Corte UE
Come anticipato, con la “sentenza Vitali” del 26 settembre 2019 (causa C-63/18), la Corte di Giustizia Ue ha riconosciuto l’incompatibilità del limite del 30% del subappalto fissato dalla normativa italiana, pronuncia che comporterà che il nostro legislatore modifichi tale previsione.
La direttiva 2014/24
La “nuova” direttiva appalti 2014/24:
– ha l’obiettivo di garantire il rispetto, nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, in particolare, della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi, e dei principi che ne derivano, in particolare la parità di trattamento, la non discriminazione, la proporzionalità e la trasparenza, nonché di garantire che l’aggiudicazione degli appalti pubblici sia aperta alla concorrenza;
– prevede espressamente la possibilità per gli offerenti di fare affidamento, a determinate condizioni, sulle capacità di altri soggetti, per soddisfare determinati criteri di selezione degli operatori economici (art. 63, paragrafo 1). |
Il subappalto nel diritto UE
La direttiva appalti 2014/24 in materia di subappalto dispone che l’amministrazione aggiudicatrice può chiedere o può essere obbligata da uno Stato Ue a chiedere all’offerente di indicare, nella sua offerta, le eventuali parti dell’appalto che intende subappaltare a terzi, nonché i subappaltatori proposti (art. 71, paragrafo 2).
Inoltre, come la direttiva 2004/18, la direttiva appalti 2014/24 (che l’ha abrogata) stabilisce la possibilità, per gli offerenti, di ricorrere al subappalto per l’esecuzione di un appalto, purché le condizioni da essa previste siano soddisfatte (v., in tal senso, CGUE, sentenza del 14 luglio 2016, Wrocław, C406/14, riguardante l’interpretazione della direttiva 2004/18).
Secondo una giurisprudenza costante, è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile: il subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo.
Le nuove norme in tema di subappalto
Rispetto alla direttiva 2004/18 (art. 25), però, l’art. 71 della direttiva 2014/24 elenca talune norme supplementari in materia di subappalto, prevedendo in particolare la possibilità, per l’amministrazione aggiudicatrice:
– di chiedere o di essere obbligata dallo Stato membro a domandare all’offerente di informarla sulle intenzioni di quest’ultimo in materia di subappalto,
– a determinate condizioni, di trasferire i pagamenti dovuti direttamente al subappaltatore per i servizi, le forniture o i lavori forniti al contraente principale. |
Sempre l’art. 71 dispone che le amministrazioni aggiudicatrici possono verificare o essere obbligate dagli Stati membri a verificare se sussistano motivi di esclusione dei subappaltatori ex art. 57, direttiva 2014/24, relativi in particolare alla partecipazione a un’organizzazione criminale, alla corruzione o alla frode.
Tuttavia – sottolineano i giudici di Lussemburgo – dalla volontà del legislatore dell’Unione di disciplinare in maniera più specifica, mediante l’adozione di queste norme, le situazioni in cui l’offerente fa ricorso al subappalto, non si può dedurre che gli Stati Ue dispongano ormai della facoltà di limitare il subappalto a una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, così come invece prevede attualmente il Codice appalti italiano.
Contrasto all’infiltrazione della criminalità negli appalti pubblici, obiettivo legittimo
Dal canto suo, il Governo italiano, intervenuto in giudizio, ha sottolineato che la limitazione del ricorso al subappalto prevista dal D.Lgs. n. 50/2016 sarebbe giustificata dalle particolari circostanze presenti in Italia, dove il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi: “Limitando la parte dell’appalto che può essere subappaltata, la normativa nazionale renderebbe il coinvolgimento nelle commesse pubbliche meno appetibile per le associazioni criminali, il che consentirebbe di prevenire il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nelle commesse pubbliche e di tutelare così l’ordine pubblico”.
In effetti, la direttiva 2014/24 (in particolare i considerando 41 e 105 e l’art. 71, paragrafo 7) lascia gli Stati membri liberi di prevedere, nel proprio diritto interno, disposizioni più rigorose rispetto a quelle previste dalla direttiva 2014/24 in materia di subappalto, a condizione che esse siano compatibili con il diritto Ue.
Peraltro, con i criteri di selezione qualitativi previsti dalla direttiva 2014/24 (in particolare, con i motivi di esclusione ex art. 57, paragrafo 1), il legislatore Ue ha anche cercato di evitare che gli operatori economici che sono stati condannati con sentenza definitiva, alle condizioni previste in tale articolo, partecipino a una procedura di aggiudicazione di appalti; lo stesso considerando 100 precisa che è opportuno evitare l’aggiudicazione di appalti pubblici, in particolare, ad operatori economici che hanno partecipato a un’organizzazione criminale.
Insomma, gli Stati Ue – come affermato da una costante giurisprudenza comunitaria – hanno un certo potere discrezionale nell’adozione di misure destinate a garantire il rispetto dell’obbligo di trasparenza, il quale si impone alle amministrazioni aggiudicatrici in tutte le procedure di aggiudicazione di un appalto pubblico.
In tale quadro, in via di principio, la Corte di Giustizia ha riconosciuto che il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (v., in tal senso, sentenza del 22 ottobre 2015, Impresa Edilux e SICEF, C–425/14).
Non bisogna eccedere “quanto necessario”
Orbene, anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare questo fenomeno criminale – dice la Corte Ue – una restrizione del subappalto come quella prevista dal Codice appalti italiano eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo.
La Corte Ue ricorda che, durante tutta la procedura, le amministrazioni aggiudicatrici devono rispettare i principi di aggiudicazione degli appalti di cui all’art. 18 della direttiva 2014/24, tra i quali figurano, in particolare, i principi di parità di trattamento, di trasparenza e di proporzionalità (sentenza del 20 settembre 2018, Montte, C–546/16).
Secondo i giudici europei, il divieto imposto dalla normativa italiana non rispetta tali principi. Infatti, il Codice appalti “vieta in modo generale e astratto il ricorso al subappalto che superi una percentuale fissa dell’appalto pubblico in parola, cosicché tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto generale non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore” (v., per analogia, sentenza del 5 aprile 2017, Borta, C–298/15).
I giudici europei puntano quindi il dito sulla conseguenza di tale previsione del Codice appalti e cioè che, per tutti gli appalti, una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati debba essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione.
Il legislatore italiano deve ricorrere a misure meno restrittive
Pertanto, come ha sottolineato la Commissione, “misure meno restrittive sarebbero idonee a raggiungere l’obiettivo perseguito dal legislatore italiano”: in merito, la Corte di Giustizia richiama quelle previste dall’art. 71 della direttiva 2014/24 (NdA: le abbiamo riportate più sopra).
Lo stesso TAR Lombardia aveva indicato le numerose attività interdittive previste dal diritto italiano al fine di impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese.
In definitiva, conclude la Corte di Giustizia, la restrizione del 30% al ricorso del subappalto non può essere ritenuta compatibile con la direttiva 2014/24.
L’Italia dovrà eliminare tale prescrizione – e ci sembra che ciò valga anche per il limite “temporaneo” del 40% previsto dal D.L. 32/2019 (“Sblocca cantieri”) – e adottare piuttosto le misure previste dall’art. 71 della direttiva 2014/24, con le quali gli Stati membri possono limitare il ricorso al subappalto. Lo stesso obiettivo di contrasto alla criminalità potrà essere perseguito anche applicando internamente i possibili motivi di esclusione dei subappaltanti ai sensi dell’art. 57 della direttiva, e ai quali fa riferimento l’art. 71, paragrafo 6, lettera b).
Si ricorda che il Codice appalti e in particolare il subappalto sono già finiti sotto la lente della Commissione che in merito ha aperto la procedura di infrazione n. 2018/2273 per le numerose violazioni delle direttive comunitarie in tema di appalti.
Riferimenti normativi:
D.L. 32/2019
Art. 18 della direttiva 2014/24
Corte di giustizia UE, sentenza 26 settembre 2019 (C-63/18)