Disciplina in tema di distanza minima tra fabbricati

Disciplina in tema di distanza minima tra fabbricati

Disciplina in tema di distanza minima tra fabbricati

La distanza minima tra fabbricati ex art. 9, co. 1, n. 2), D.M. n. 1444/1968 non trova applicazione laddove la costruzione della nuova parete avvenga in aderenza ad un muro posto a confine tra le due proprietà. Ciò in quanto tale muro non può essere definito “parete finestrata”, l’art. 877 c.c. prevede il diritto del vicino a costruire in aderenza e non vengono a realizzarsi intercapedini dannose, insalubri o pericolose (Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 27 agosto 2019, n. 5897).

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2019, n. 3280

Cass. civ., sez. II, 26 luglio 2016, n. 15458

Difformi Non si rilevano precedenti

Il fatto

Innanzi al Consiglio di Stato è impugnata la sentenza del Tar Lombardia, Milano, sez. II, 17 settembre 2013, n. 2151 che aveva respinto il ricorso avverso il provvedimento di un Comune di annullamento di due precedenti permessi di costruire rilasciati per la realizzazione dell’ampliamento di un edificio artigianale.

La decisione del Consiglio di Stato

L’adito Collegio di Palazzo Spada si sofferma (tra l’altro) sul tema della corretta interpretazione della disciplina sulla distanza minima tra fabbricati come posta dall’art. 9, co. 1, n. 2), D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 (metri 10 tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti).

Più in particolare, detta disposizione, nel prescrivere, a seconda delle zone del territorio comunale, precise distanze tra fabbricati intende garantire sia l’interesse pubblico ad un ordinato sviluppo dell’edilizia, sia l’interesse pubblico alla salute dei cittadini, evitando il prodursi di intercapedini malsane e lesive della salute degli abitanti degli immobili (Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 856).

Le distanze previste dall’art. 9 cit., dunque, sono coerenti con il perseguimento dell’interesse pubblico e non già con la tutela del diritto dominicale dei proprietari degli immobili finitimi alla nuova costruzione, tutela che è invece assicurata dalla disciplina all’uopo predisposta, anche in tema di distanze, dal codice civile.

La giurisprudenza di legittimità ha precisato che, ai fini dell’osservanza delle norme sulle distanze legali (di origine codicistica o prescritte dagli strumenti urbanistici in funzione integrativa della disciplina privatistica), la nozione di costruzione non coincide con quella di edificio ma si estende a qualsiasi manufatto non completamente interrato che presenti i caratteri della solidità, stabilità, ed immobilizzazione al suolo, anche mediante appoggio, incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica preesistente o contestualmente realizzato, indipendentemente dal livello di posa e di elevazione dell’opera (Cass. civ., sez. II, 17 giugno 2011, n. 13389).

Non solo. L’apporto pretorio ha anche stabilito che, sempre ai fini del rispetto delle distanze fra costruzioni, non rileva il materiale utilizzato per la fabbrica, richiedendosi soltanto una durevolezza dell’opera, comunemente riconoscibile anche alle opere in legno o ferro od altri materiali leggeri, purché infissi al suolo non transitoriamente (Cass. civ., sez. II, 24 maggio 1997, n. 4639).

Si è detto, ancora:

– “ogni volta che lo strumento urbanistico pianifichi il territorio, qualificandolo secondo le zone territoriali omogenee come definite dal D.M. n. 1444 del 1968, diviene obbligatorio osservare le distanze minime prescritte dall’art. 9 del detto decreto ministeriale per ciascuna zona territoriale.

Qualora lo strumento urbanistico recepisca le prescrizioni in materia di distanze tra costruzioni dettate dall’art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 ovvero stabilisca distanze più rigorose, si applicheranno le norme del regolamento comunale.

Qualora, invece, lo strumento urbanistico non osservi le prescrizioni del detto art. 9, o in quanto prevede distanze minori ovvero in quanto non prevede affatto alcuna distanza tra i fabbricati, si determinerà l’inserzione automatica delle prescrizioni dell’art. 9 nello strumento urbanistico, divenendo così tali prescrizioni – a mezzo dello strumento urbanistico del quale entrano a far parte – immediatamente applicabili anche ai rapporti tra privati” (Cass. civ., sez. II, 26 luglio 2016, n. 15458);

– “le condizioni di salubrità vanno assicurate anche quando una sola delle costruzioni che si fronteggiano sia un vero e proprio edificio e, cioè, un fabbricato destinato ad ospitare persone. Anche in questo caso non può infatti considerarsi tollerabile la sussistenza di intercapedini dannose per la salubrità degli ambienti. Da quanto sopra discende che la norma in esame si applica non solo nel caso in cui entrambi i fabbricati frontistanti consistano in edifici, ma anche nel caso in cui uno solo di essi sia un vero e proprio edificio, mentre l’altro consista in una costruzione tale da precludere al primo di beneficiare di un adeguato afflusso di aria e luce idoneo a scongiurare pericoli di igiene” (Tar Lombardia, Milano, sez. II, 20 gennaio 2015, n. 218);

– “laddove si afferma il carattere inderogabile della prescrizione di cui all’art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968(distanza minima assoluta di m. 10 relativa alle pareti finestrate), e cogente per tutti gli strumenti urbanistici e regolamenti edilizi di fonte comunale, si impone l’applicazione della relativa disciplina anche nelle ipotesi in cui una sola delle due pareti frontistanti sia finestrata, posto che l’interesse pubblico presidiato dalla norma è quello della salubrità dell’edificato, da non confondersi con l’interesse privato del frontista a mantenere la riservatezza o la prospettiva” (Cons. Stato, Sez. IV, 9 ottobre 2012, n. 5253);

– “è illegittimo il permesso di costruire rilasciato per l’edificazione di un fabbricato che non rispetti le distanze minime tra gli edifici, previste dall’art. 9 del D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, le cui previsioni non sono derogabili da parte degli strumenti urbanistici. In tema di distanze tra costruzioni, il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della legge 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41-quinquies (cd. legge urbanistica), aggiunto dalla legge 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica; ne consegue che, in caso di dolosa violazione della disciplina in tema di distanze legali da parte del pubblico ufficiale preposto al rilascio del titolo abilitativo edilizio, questi risponde del delitto di abuso d’ufficio ai sensi dell’art. 323 c.p.” (Cass. pen., sez. III, 12 gennaio 2012, n. 10431);

“in tema di distanze legali tra edifici o dal confine, mentre non sono a tal fine computabili le sporgenze estreme del fabbricato che abbiano funzione meramente ornamentale, di finitura od accessoria di limitata entità, come le mensole, le lesene, i cornicioni, le grondaie e simili, invece, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni, le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi avanzati (c.d. aggettanti) che, se pur non corrispondono a volumi abitativi coperti, sono destinate ad estendere ed ampliare la consistenza del fabbricato. Lo stesso può dirsi per le opere di contenimento, …. [per, n.d.a.] … sostenere il terreno al fine di evitare movimenti franosi dello stesso” (Cons. Stato, sez. IV, 30 giugno 2005, n. 3539).

Può dirsi, dunque, che, una volta accertata una difformità, rispetto al titolo rilasciato, per violazione della normativa sulle distanze, il conseguente abuso deve essere sanzionato, non rilevando in senso contrario né un ipotetico accordo tra le parti private, né un titolo edilizio sopravvenuto rispetto alla prima (originaria) costruzione (Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2019, n. 3280).

Orbene, nel solco di questi insegnamenti giurisprudenziali si pone la sentenza qui in esame in cui l’adito Collegio giudicante osserva come la norma dell’art. 9 cit. non si applica nell’ipotesi in cui la costruzione di una nuova parete sia posta in essere in aderenza ad un muro di confine tra le due proprietà (esattamente quanto avvenuto nel caso oggetto dell’intervento del Consiglio di Stato).

Ciò quanto, in tale ipotesi, non può parlarsi di “parete finestrata”, l’art. 877 c.c. disciplina il diritto del vicino a costruire in aderenza e non si realizzano intercapedini dannose, insalubri o pericolose.

Riferimenti normativi:

Art. 877 c.c.

Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 27 agosto 2019, n. 5897

 

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