Realizzano una moschea in un ex magazzino, senza cambio di destinazione d’uso: è abuso edilizio

Realizzano una moschea in un ex magazzino, senza cambio di destinazione d’uso: è abuso edilizio

Realizzano una moschea in un ex magazzino, senza cambio di destinazione d’uso: è abuso edilizio

La terza Sezione Penale, con sentenza del 30 agosto 2019, n. 36689, esaminando il caso di trasformazione in luogo di culto di un immobile precedentemente adibito a magazzino, fa il punto sui concetti di luogo di culto e di reato di abuso edilizio per carenza di autorizzazione al cambio di destinazione d’uso.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. Pen. n. 52398 del 2018

Cons. Stato, Sez. IV, Ordinanza n. 2008 del 2011

TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, n. 242 del 2013

Difformi TAR Lombardia n. 1939 del 2018
Vedi Corte Cost. n. 52 del 2016

Corte Cost. n. 63 del 2016

Corte Cost. n. 67 del 2017

Integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il mutamento della destinazione d’uso di locali originariamente destinati a magazzino in luogo di culto. Il mutamento di destinazione rilevante ai fini della creazione di luoghi di culto è quello che altera, sia pure senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso l’immobile perde la destinazione originariamente assentita per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata.

Il caso di specie

Il caso di specie riguarda l’utilizzo di un ex magazzino come moschea, ubicato nella Regione Lombardia.

Nello specifico, in occasione di un accertamento presso un immobile adibito a magazzino (categoria C2), venivano rinvenute 400 persone intente nella preghiera, nonché accertata la presenza di bagni con rubinetti per le abluzioni, un cartello affisso con orario del culto, il pavimento ricoperto di tappeti ed uno spazio “riservato alle donne”, separato da un vetro divisorio (la stessa circostanza veniva confermata anche in altre occasioni, come da fotografie agli atti del giudizio di primo grado).

La Corte d’Appello di Milano confermava la sentenza di primo grado, condannando P. (nella sua qualità di committente dei lavori effettuati all’interno dei locali) alla pena di 6 mesi di arresto ed € 9.000,00 di ammenda, con il concorso di attenuanti generiche ed i doppi benefici di legge, in quanto ritenuto colpevole del reato edilizio contestatogli, per avere realizzato un mutamento di destinazione d’uso con opere edilizie per la creazione di un luogo di culto senza permesso di costruire, in locali originariamente destinati a magazzino.

Avverso tale pronuncia, P. interponeva ricorso per Cassazione, dolendosi, tra l’altro, dell’impossibilità per i professanti la fede musulmana di aprire un luogo di culto, a causa delle più stringenti norme regionali intervenute per regolare i numerosi nuovi insediamenti e, pertanto, tentava di sollevare anche un’eccezione di incostituzionalità – facendo leva sul diritto di associazione e sul diritto di culto – poi disattesa dalla Suprema Corte.

La questione giuridica sottoposta alla Corte

La Suprema Corte ha eliminato ogni dubbio circa l’applicabilità al caso di specie del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), dal momento che la condotta dell’imputato ha determinato un concreto mutamento della destinazione d’uso originaria dell’immobile, classificato nella visura catastale come C2, ossia magazzino e locale di deposito (non destinato, per tipologia e natura ad accogliere, in modo continuativo e prolungato persone, bensì merci e beni).

Nello specifico, il mutamento medesimo si sarebbe sostanziato anche nell’esecuzione di opere all’interno dei locali, consistite nel dividere gli spazi per riservarne una parte alle donne, nella costruzione di nuovi servizi igienici, nella zona di abluzione dei piedi.

Tali circostanze, a detta degli Ermellini, consentivano di escludere il carattere occasionale degli incontri tra i credenti.

Sussistente, peraltro, è stato ritenuto anche un non indifferente aggravio del carico urbanistico, considerato il considerevole assembramento di persone (circa 400) e dovendosi anche tenere in conto dell’assenza di uscite di sicurezza all’interno dei locali, circostanza che determinava altresì un pericolo per la pubblica incolumità.

A detta del ricorrente, la violazione di legge sarebbe stata invece resa evidente dalla non intelligibilità del concetto di “destinazione a luogo di culto“, testimoniata dalle numerose e contraddittorie sentenze emesse in sede penale ed amministrativa.

Secondo questa tesi, quindi, quand’anche si fosse ritenuta la necessità del permesso di costruire per le attività realizzate dall’Associazione in quanto integrante un mutamento della destinazione d’uso, l’omessa richiesta sarebbe costituita un errore scusabile, indotto dall’assenza di una chiara normativa in materia e da plurimi provvedimenti adottati dalla magistratura penale ed amministrativa che non avrebbero ritenuto integrato il cambio di destinazione d’uso per condotte del tutto analoghe.

Sul punto, la Suprema Corte ha ritenuto che la natura contravvenzionale del reato in questione, e dunque la punibilità anche a titolo di colpa, dovessero escludere che nel caso di specie l’agente fosse incorso in un errore incolpevole.

Infine, il ricorrente si doleva dell’erronea applicazione dell’art. 131-bis c.p. da parte della Corte d’Appello, il quale impone di valutare la sussistenza della tenuità guardando alle modalità della condotta e alla esiguità del danno.

Anche tale ultimo motivo viene ritenuto dalla Corte inammissibile, in quanto:

— i documenti in atti hanno confermato che non potesse parlarsi di un unico episodio (“anche in altre occasioni, come documentato dalle fotografie in atti, vi erano persone a terra, inginocchiate, tutte rivolte nella stessa direzione così come i tappeti”);

— relativamente alla condotta, e agli effetti derivanti da essa, deve poi evidenziarsi come i lavori eseguiti abbiano non solo comportato un mutamento della destinazione d’uso dell’immobile (originariamente risultante al catasto come magazzino/deposito), ma anche un aggravio non indifferente del carico urbanistico dovuto all’elevato numero di persone, ponendo in pericolo interessi pubblici di primaria importanza quali l’ordine pubblico e l’incolumità pubblica, specialmente per l’assenza di presidi di sicurezza.

Sul punto, la Corte ha ulteriormente precisato che, ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131 bis c.p., il giudizio sulla tenuità richiede infatti una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell’art. 133 c.p., comma 1, delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell’entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016 – dep. 06/04/2016, Tushaj, Rv. 266590), elementi certamente non riconducibili all’ipotesi scrutinata.

La questione di costituzionalità

La difesa del ricorrente ha ribadito anche in sede di legittimità la richiesta – già avanzata in sede di appello e disattesa dalla Corte – di sollevare questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, comma 1, lett. b), in relazione al combinato disposto del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 10, comma 2, e L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 52, comma 3bis, per contrasto con l’art. 19 Cost., art. 25 Cost., comma 2 e art. 117 Cost. in riferimento all’art. 9 Cedu.

Si sosteneva, infatti, che il giudice di secondo grado avesse errato nel negare il contrasto con le norme costituzionali, affermando che nessuna limitazione alla libertà di culto sarebbe derivata dall’applicazione della normativa in esame, la quale si limita a richiedere il permesso di costruire nel caso in cui chiunque intenda destinare a luogo di culto un immobile, in ragione della necessità di valutare il carico urbanistico e, dunque, l’impatto sul territorio e la pianificazione urbanistica quale interesse pubblico di evidente importanza. Una tale interpretazione, a detta del ricorrente, non avrebbe tenuto conto dell’evoluzione normativa che avrebbe de facto reso impossibile per i professanti la fede musulmana aprire un luogo di culto.

La L.R. n. 2 del 2005, infatti, per la costruzione di luoghi di culto avrebbe previsto, sempre secondo il ricorrente, requisiti impossibili da realizzare, tanto da incontrare la censura della Corte Costituzionale, la quale aveva riscontrato come, avendone tale legge subordinato la costruzione, per le confessioni prive di una intesa con lo Stato, al previo avallo della Giunta regionale che, tuttavia, ad oltre un anno di distanza, non era stata ancora istituita, avrebbe reso di fatto impossibile per un professante di religione musulmana (religione senza intesa) edificare un proprio luogo di culto.

A conferma della contrarietà di una tale normativa rispetto alla disciplina convenzionale, il ricorrente ha fatto riferimento alla sentenza dei giudici di Strasburgo (Association de solidaritè avec les temoins de jehovah e altri c. Turchia), al TAR Lombardia, con la sentenza n. 1939 del 2018 (che ha inoltre sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale con riferimento alla L.R. n. 2 del 2005 rilevandone proprio il contrasto con la libertà di culto).

La risposta della Suprema Corte

Al fine di fornire una soluzione alla richiesta di rimessione degli atti alla Consulta, la Suprema Corte si sofferma ad esaminare preliminarmente la questione giuridica relativa al tema del rapporto tra normativa urbanistica e limitazione del diritto all’esercizio del culto nella giurisprudenza nazionale e sovranazionale.

Sul bilanciamento dell’interesse al libero esercizio del proprio culto, da un lato, e gli interessi pubblici immanenti alla pianificazione urbanistica, dall’altro, la Suprema Corte ha richiamato due recenti pronunce della Corte Costituzionale: la n. 52 e la n. 63 del 2016, in base alle quali “…è il rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza a condizionare il rilascio alla legge della patente di conformità costituzionale…”.

In tali arresti viene riconosciuta alle Autorità competenti la possibilità di operare ragionevoli differenziazioni fra le confessioni religiose, in quanto “l’eguale libertà delle confessioni religiose di organizzarsi e di operare non implica che a tutte “debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come “è naturale allorchè si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione”.

La Corte costituzionale ha ammesso inoltre che, nel modulare la tutela della libertà di culto, sono senz’altro da considerare la sicurezza, l’ordine pubblico e la pacifica convivenza i quali, in veste di interessi costituzionali garantiti, possono comportare una limitazione dell’esercizio della libertà religiosa in tutte le sue possibili accezioni, assicurando, ad ogni modo, una tutela unitaria e non frammentaria di tutti gli interessi coinvolti, nonché applicando il principio c.d. less restrictive measure, ossia indirizzando la scelta verso misure che consentano il minor sacrificio possibile del diritto inciso.

La premessa basilare da cui muove la Corte è data dalla considerazione che tutti i diritti fondamentali nascono limitati, non mancando di sottolineare che una disciplina sulle modalità di esercizio di un diritto non sarebbe da considerare ex se violazione o negazione del diritto, precisando che il concetto di limite è insito nel concetto di diritto, per cui è necessario che le diverse sfere giuridiche si limitino reciprocamente affinché possano coesistere nell’ordinata convivenza civile.

Nel caso di specie, innanzitutto, non si riscontrava alcuna discriminazione derivante dall’applicazione della legge regionale, essendo il permesso di costruire richiesto a prescindere dal culto professato, ovvero dall’esistenza o meno di una intesa con lo Stato.

Inoltre, la limitazione della libertà fondamentale di esercizio del proprio culto viene ad essere fondata sull’esigenza per la P.A. (nella specie, il Comune) di avere conoscenza dei mutamenti di destinazione d’uso degli immobili i quali, dato l’utilizzo per fini religiosi, possono comportare un aggravio del carico urbanistico non di scarso rilievo, incidendo sul territorio e sulla pianificazione urbanistica, considerati anche i possibili risvolti rispetto ad interessi di pari dignità giuridica quali l’ordine pubblico e la pubblica sicurezza.

Per tali motivi, la questione sollevata viene ritenuta dalla Corte manifestamente infondata.

Ricadute pratiche

Sulla base dei principi enunciati dalla Suprema Corte, pur nel rispetto della libertà di culto e delle esigenze associative delle singole confessioni religiose, si deve concludere nel senso che non ogni luogo può essere liberamente utilizzato a fini di culto.

Imprescindibile è il rispetto delle norme in materia di permessi di costruzione per mutamenti di destinazione d’uso di immobili, laddove in particolare le circostanze comporterebbero un aggravio del carico urbanistico non di scarso rilievo, nonché un’alterazione permanente della funzione originaria dell’immobile, anche senza l’intervento di opere.

La Corte ha tuttavia tenuto distinte tali fattispecie dai casi, per vero peculiari, scrutinate dalla Giurisprudenza amministrativa nelle quali ci si trovi in presenza di un immobile legittimamente adibito a sede di associazione culturale il cui fine religioso rivesta carattere di accessorietà e marginalità nel contesto degli scopi statutari (cfr. TAR Lombardia-Brescia, Sez. I, sentenza 8.03.2013, n. 242; TAR Lombardia-Milano, Sez. II, sentenza 25.10.2010, n. 7050).

In tali ipotesi, laddove l’accesso alle attività di preghiera non sia consentito al pubblico indiscriminatamente ma garantito ai soli associati nel rispetto delle condizioni sopra evidenziate, non ci si troverebbe in presenza di una fattispecie involgente la normativa edilizia ed in particolare le norme che disciplinano il mutamento di destinazione d’uso e ne sanzionano la realizzazione di fatto, sprovvista di provvedimenti autorizzatori.

Esito del ricorso:

Rigetto

Riferimenti normativi:

Art. 44, c. 1, lett. B D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380

Art. 10, c. 2 D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380

Legge Regione Lombardia n. 12/2005, art. 52, comma 3bis

Art. 533 c.p.p.

Art. 19 Cost.

Art. 131-bis c.p.

La soluzione
Integra il reato di cui all’art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, il mutamento della destinazione d’uso di locali originariamente destinati a magazzino in luogo di culto.
I precedenti conformi
Cons. Stato, Sez. IV – Ord., 10-05-2011, n. 2008 Il mutamento di destinazione rilevante ai fini della creazione di luoghi di culto è quello che altera, sia pure senza opere, la funzione originaria dell’immobile, al fine di adibirlo, in via permanente, ad una funzione diversa. In tal caso l’immobile perde la destinazione originariamente assentita per assumere la funzione diversa che gli viene assegnata.
TAR Lombardia – Brescia, Sez. I, 08-03-2013, n. 242 In merito al mutamento della destinazione d’uso di un immobile a luogo di culto, ha posto in luce come in un locale legittimamente adibito a sede di associazione culturale/religiosa, l’uso difforme della destinazione, per utilizzarlo come sede dedicata all’esercizio del credo (nel caso di specie islamico), non possa essere identificato con il mero fatto che nel locale si svolga la preghiera. Di uso incompatibile può eventualmente parlarsi nel caso in cui l’accesso per la libera attività di preghiera non sia riservata ai soli membri dell’associazione, ma “indiscriminato”.
Cass. Pen. Sez. III, 19-06-2018, n. 52398 Costituisce “mutamento d’uso urbanisticamente rilevante” ogni forma di trasformazione stabile di un immobile, preordinata a soddisfare esigenze non precarie, anche se non accompagnata da opere edilizie, purché ciò avvenga tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico, mentre nell’ambito della medesima categoria, eccezion fatta per i centri storici, gli eventuali mutamenti di fatto non incidono sul carico urbanistico della zona.
I precedenti difformi
TAR Lombardia,n. 1939 del 2018 Il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1939 del 2018, solleva una nuova questione di legittimità costituzionale con riferimento alla L.R. Lombardia n. 2 del 2005, censurando sostanzialmente la limitazione del diritto al libero esercizio di culto derivante dall’eventuale mancata adozione del Piano regolatore delle attrezzature religiose.

Il TAR Lombardia, con la sentenza n. 1939 del 2018, ha inoltre sollevato una nuova questione di legittimità costituzionale con riferimento alla L.R. n. 2 del 2005 rilevandone proprio il contrasto con la libertà di culto. Secondo il giudice amministrativo, infatti, tale legge finirebbe per accentrare in capo all’Amministrazione locale la scelta in ordine ai tempi, luoghi e distribuzione tra le varie confessioni religiose, degli spazi di culto che si prevedono di aprire sul territorio, senza consentire, al di fuori di tale rigida predeterminazione, neppure la realizzazione, ad iniziativa privata e in aree comunque idonee dal punto di vista urbanistico, di modeste sale di preghiera. Secondo il TAR, la disciplina regionale lombarda in materia di edifici di culto consiste nell’individuazione di una corrispondenza biunivoca tra le “attrezzature religiose di interesse comune” di cui all’art. 71, comma 1, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le “attrezzature religiose” di cui all’art. 72, sicché tutte tali attrezzature sono soggette alla programmazione comunale, a prescindere dalla circostanza che il loro inserimento nel territorio debba essere effettivamente preordinato della Amministrazione, al fine di assicurare la proporzionata dotazione di standard di urbanizzazione secondaria a servizio di insediamenti residenziale, ovvero che si tratti di iniziative d enti religiosi, comunità di fedeli o gruppo di cittadini al solo scopo di assicurare ai fedeli che intendano pratica il culto di disporre di un luogo idoneo a tale fine. Tale impostazione, sostiene il giudice amministrativo, collide con l’art. 19 Cost. che pone come unico limite alla pratica di un culto nella non contrarietà al buon costume, includendo nel diritto tutelato anche l’apertura di luoghi destinati al suo esercizio.

Altri precedenti in materia
Corte Cost., n. 52 del 27.01.2016, dep. 10.03.2016 I Giudici della Corte vengono qui chiamati a pronunciarsi su un ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto dal Presidente del Consiglio dei ministri contro la Corte di Cassazione, sezioni unite civili, in relazione alla sentenza 28 giugno 2013, n. 16305. Il ricorso si proponeva l’obiettivo (pienamente conseguito) di ottenere una declaratoria da parte della Corte Costituzionale circa il fatto che non spetta alla Corte di Cassazione affermare la sindacabilità, ad opera dei giudici comuni, del rifiuto del Consiglio dei ministri di avviare le trattative finalizzate alla conclusione dell’intesa di cui all’art. 8, 3°comma, Cost.

In tale occasione, il Giudice delle Leggi ha ribadito che tutte le confessioni religiose sono idonee a rappresentare gli interessi religiosi dei loro appartenenti, escludendosi che la previa stipulazione di un’intesa possa costituire un fattore di discriminazione nell’applicazione di una disciplina volta ad agevolare l’esercizio di un diritto di libertà dei cittadini costituzionalmente garantito, dovendosi piuttosto assicurare l’uguaglianza dei singoli nell’effettivo godimento della libertà di culto. Nemmeno la condizione di minoranza di alcune confessioni potrebbe giustificare un minore livello di protezione rispetto a quelle più diffuse.

Corte Cost. n. 63 del 23.02.2016, dep. 24.03.2016 Con la sentenza n. 63 del 2016 la Corte costituzionale si esprime su una questione riguardante l’edilizia di culto L’oggetto del giudizio era una legge della Regione Lombardia: con la sentenza n. 346 del 2002, il Giudice delle Leggi censurò la legge regionale, che includeva tra i beneficiari dei contributi per l’edilizia di culto solo le confessioni che avessero stipulato un’intesa ex art. 8, comma 3, Cost.. Con la sentenza n. 63 del 2016, ha dichiarato incostituzionale in alcune parti la legge della Regione Lombardia n. 12/2005 (Legge per il governo del territorio, come modificata dalla legge n. 2 del 2015), sia per violazione di parametri sostanziali che per lesione di disposizioni sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. “E’ costituzionalmente illegittimo l’art. 70 commi 2 bis lettera a) b) e comma 2 quater della legge Regionale Lombarda n. 2/2015 nella parte in cui introduce condizioni differenziate per la realizzazione di edifici di culto per le confessioni religiose che non hanno stipulato un accordo o un’intesa con lo stato; tale differente trattamento è incostituzionale sia perché costituisce una illegittima limitazione della libertà di religione garantita dagli artt. 8 comma 1 e 19 Cost., sia perché le questioni inerenti il rapporto con le confessioni religiose rientrano nella competenza esclusiva dello Stato ex art. 117 comma 2 let c) Cost. È costituzionalmente illegittimo l’art. 72 commi 4 e 7 lett e) della legge Regionale Lombarda n. 2/2015 nella parte in cui impone, per la realizzazione di nuovi luoghi di culto, il previo parere delle autorità di pubblica sicurezza e la predisposizione di sistemi di videosorveglianza; si tratta infatti di disposizioni che incidono sulla materia dell’ordine pubblico e sicurezza, di competenza esclusiva dello Stato ex art. 117, comma 2, lett h).” In tema di disposizioni per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi, il Giudice delle Leggi ha evidenziato che la legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” richiamando anche il proprio precedente (sent. n. 195/1993).
Corte Cost. 07.03.2017 – 07.04.2017, n. 67 La sentenza ha ad oggetto due disposizioni della L.R. Veneto n. 12 del 2016. La Corte Costituzionale ha riaffermato che “non v’è dubbio che la Regione sia titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto”, tuttavia, nell’esercizio di tali competenze, possono essere imposte (solo) quelle condizioni e limitazioni “che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure”. Tale non è stata considerata l’imposizione, ai sensi dell’art. 31-ter della legge summenzionata, dell’impiego della lingua italiana, anche se ciò era stato motivato con l’intento di favorire l’integrazione di tutti gli appartenenti alla comunità, in quanto tale finalità non avrebbe potuto legittimamente ritenersi una misura strettamente necessaria (richiamandosi in tal modo anche la normativa sovranazionale e, nello specifico il par. 2 dell’art. 9 Cedu). “Va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016, n. 12 nella parte in cui, nell’introdurre nella legge regionale 23 aprile 2004, n. 11, l’art. 31-ter, al suo comma 3, dispone che «nella convenzione può, altresì, essere previsto l’impegno ad utilizzare la lingua italiana per tutte le attività svolte nelle attrezzature di interesse comune per servizi religiosi, che non siano strettamente connesse alle pratiche rituali di culto». A fronte dell’importanza della lingua quale «elemento di identità individuale e collettiva» (da ultimo, sentenza n. 42 del 2017), veicolo di trasmissione di cultura ed espressione della dimensione relazionale della personalità umana, appare evidente il vizio di una disposizione regionale, come quella impugnata, che si presta a determinare ampie limitazioni di diritti fondamentali della persona di rilievo costituzionale, in difetto di un rapporto chiaro di stretta strumentalità e proporzionalità rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti, ricompresi nel perimetro delle attribuzioni regionali”.

Cassazione penale, sezione III, sentenza 30 agosto 2019, n. 36689