Condominio, il diritto di veduta

Condominio, il diritto di veduta

Il diritto di veduta non può essere ostacolato nemmeno da una tenda scorrevole, se il cassonetto in cui la stessa viene avvolta è stato installato a distanza inferiore ai tre metri previsti dalla legge. Lo ha chiarito la seconda sezione civile della Corte di cassazione con la recente ordinanza n. 7622, pubblicata lo scorso 21 marzo 2024.

Nella specie un condòmino aveva citato in giudizio la società proprietaria dell’unità immobiliare sottostante, lamentando la violazione delle norme sulle distanze e l’impedimento all’esercizio della servitù di luce esistente a vantaggio del proprio immobile. Era accaduto che sulla parete sottostante era stata installata una tenda di stoffa ritraibile, di cui il condòmino attore chiedeva che venisse ordinata la rimozione. La società si era costituita in giudizio contestando la fondatezza della domanda avversaria e chiedendo che la stessa venisse respinta. Il tribunale aveva invece dato ragione all’attore, ordinando l’eliminazione delle opere giudicate illegittime. In sede di appello la decisione era stata integralmente confermata e la predetta società si era quindi rivolta alla Suprema corte, evidenziando come i giudici di secondo grado avessero erroneamente considerato come una costruzione, dunque soggetta all’obbligo delle distanze legali, una semplice tenda di stoffa, per di più ritraibile, non idonea a ledere il diritto di veduta dell’immobile soprastante.

La corte di appello, in realtà, aveva evidenziato che la consulenza tecnica d’ufficio svolta nel corso del processo aveva appurato che la sola struttura fissa ancorata al muro perimetrale dell’edificio e in cui si raccoglieva la tenda quando la stessa veniva chiusa aveva le dimensioni di un parallelepipedo metri 4 x 1 x 0,10, che si trovava a soli 30 centimetri da un balcone. Inoltre tra i muri divisori, ai quali era ancorata l’ulteriore struttura in ferro destinata allo scorrimento della tenda, e i muri perimetrali erano state posizionate della lastre di lamiera che potevano rendere agevole il passaggio a eventuali malintenzionati fino ai balconi soprastanti. Secondo il Ctu era quindi da condividere l’assimilazione di tale installazione a una costruzione, ai fini dell’applicazione della distanza minima di tre metri prevista dall’art. 907, comma 3, c.c., avuto riguardo alla consistenza dei nuovi volumi generati dalle strutture fisse, unitamente alla tenda scorrevole, poste in prossimità della soglia dei balconi e, come tali, suscettibili di minarne anche la sicurezza. Per questo motivo i giudici di appello avevano ritenuto che la società in questione non avesse affatto realizzato soltanto una tenda scorrevole, bensì una struttura fissa, costituita da un elemento scatolato, destinato ad accogliere la tenda chiusa, e da un ulteriore manufatto destinato a consentire lo scorrimento della copertura, parzialmente tamponato da lastre di lamiera, tale da costituire un nuovo volume.

La distanza dalle costruzioni da rispettare

 Le distanze tra le luci e le vedute (con tali termini si intendono, in buona sostanza, i balconi e le finestre di qualsiasi dimensione e forma) e i fabbricati, secondo quanto previsto dall’art. 907 c.c., non possono essere inferiori ai tre metri (e, quindi, non può essere mai ammessa la costruzione in aderenza, che equivarrebbe alla chiusura della luce o della veduta). Secondo il disposto dell’art. 900 c.c., infatti, le luci danno passaggio alla luce e all’aria, ma non permettono di affacciarsi sul fondo del vicino, mentre le vedute o prospetti permettono di affacciarsi e di guardare di fronte, obliquamente o lateralmente.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, la nozione di costruzione comprende non solo i manufatti in calce e mattoni, ma qualsiasi opera che, indipendentemente dalla forma e dal materiale con cui è stata eretta, sia di ostacolo alla libera visuale del proprietario dell’immobile confinante. La norma in questione attribuisce al privato un vero e proprio diritto soggettivo, con la conseguenza che anche la pubblica amministrazione non può legittimamente autorizzare la costruzione di opere che non rispettino tali distanze minime. Il presupposto logico-giuridico dell’applicazione della disciplina della distanza delle costruzioni dalle vedute è ovviamente quello dell’anteriorità dell’acquisto del diritto alla veduta sul fondo vicino rispetto all’esercizio, da parte del proprietario di quest’ultimo, del proprio ius aedificandi, ovvero del proprio diritto di elevare delle costruzioni sul proprio terreno.

Perché si possa parlare di veduta la situazione di fatto dell’immobile dal quale si pretende di esercitare tale diritto deve consentire le cosiddette inspectio e prospectio sul fondo vicino, ovvero una piena e comoda visione del paesaggio circostante. In particolare la inspectio si concreta nella possibilità di guardare nel fondo del vicino senza l’uso di mezzi artificiali, mentre la prospectio consiste nello sporgere il capo e nel vedere nelle diverse direzioni in modo agevole e non pericoloso.

In altre parole, l’apertura sul fondo del vicino costituisce veduta quando la stessa consenta di affacciarsi e di guardare secondo una valutazione rapportata a criteri di comodità, sicurezza e normalità. È appena il caso di osservare che è del tutto irrilevante l’amenità del paesaggio che è possibile osservare dalla veduta: che si tratti di un pittoresco paesaggio marino, piuttosto che di un povero orto di campagna o di una ciminiera industriale, il diritto del proprietario della veduta è appunto quello di avere libero e senza ostacoli il relativo spazio visivo.

La Suprema Corte bilancia gli interessi

La seconda sezione civile della Cassazione, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha in primo luogo evidenziato che rientra nell’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, non censurabile in sede di legittimità, se non per vizio di motivazione, stabilire se una tenda estensibile, con intelaiatura fissata stabilmente al suolo, costituisca o meno una costruzione e se, per il fatto che la stessa impedisca o limiti le c.d. vedute in appiombo esercitate dal vicino, debba essere rispettata la distanza di tre metri prevista dall’art. 907 c.c.. La stessa Suprema corte, in una recente decisione, ha del resto ribadito che il divieto di costruire a distanza inferiore a tre metri riguarda in genere una fabbrica realizzata in qualsiasi materiale e forma, che sia idonea a ostacolare stabilmente l’esercizio del diritto di veduta (Cass. civ., n. 26263/2018).

D’altra parte occorre considerare che il bilanciamento tra gli opposti interessi, da una parte quello alla riservatezza e alla tranquillità del condòmino proprietario dell’unità immobiliare sottostante e dall’altra quello del proprietario soprastante alla c.d. veduta in appiombo fino alla base dell’edificio, è già stato implicitamente operato dal legislatore proprio con l’art. 907 c.c., ritenendo prevalenti quest’ultima, poiché luce e aria assicurano l’igiene degli edifici e soddisfano bisogni elementari di chi li abita (Cass. civ., n. 5732/2019). Quindi il proprietario di una unità immobiliare sita in un edificio condominiale ha diritto di esercitare dalle finestre e dai balconi la cosiddetta veduta appiombo, tanto da poter imporre al vicino di non costruire una veranda, seppure nei limiti del perimetro del sottostante balcone, a meno di tre metri di distanza (Cass. civ., n. 7269/2014).

La Cassazione ha anche chiarito che, ove si tratti di condominio negli edifici, non vi è alcuna incompatibilità tra la normativa in tema di distanze e quella sull’uso della cosa comune di cui all’art. 1102 c.c., che consente a ogni condòmino di fare pari uso del bene comune, a condizione che eguale diritto non sia impedito agli altri. E questo perché la realizzazione, in appoggio al muro perimetrale del fabbricato, di una tettoia insistente su di un bene in proprietà esclusiva di uno dei condòmini deve rispettare la distanza di tre metri dalle vedute degli altri appartamenti, in applicazione dell’art. 907 c.c., giacché la tettoia insiste su un’area di proprietà esclusiva e non condominiale ed essendo i rapporti tra proprietà individuali e beni comuni confinanti disciplinati dalle norme che regolano i rapporti tra proprietà contigue o asservite (Cass. civ., n. 17216/2020).

fonte (Italiaoggi.it)

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