Salvo titolo contrario, il sottoscala si presume parte condominiale

L’art. 1117 c.c. fornisce la “chiave” per individuare quali, in un caseggiato, siano le cose comuni, precisando che la presunzione di condominialità di una porzione immobiliare, rientrante nel campo di applicazione di tale norma, può essere vinta, dal singolo condomino, solo in ragione di un titolo originario che esplicitamente gliene attribuisca la proprietà esclusiva oppure qualora lo stesso dimostri di averla comunque acquisita mediante usucapione. E’ quanto si legge nella sentenza n. 22442 del 9 settembre 2019 della Cassazione.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI:
Conformi: Cass. civ. sez. II, 20 dicembre 2018, n. 33037

Cass. civ. sez. II, 9 agosto 2018, n. 20693

Cass. civ. sez. II, 8 marzo 2017, n. 5831

Cass. civ. sez. II, 30 giugno 2016, n. 13450

Cass. civ., sez. II, 30 aprile 2014, n. 9523

Cass. civ. sez. II, 27 maggio 2011, n. 11812

Difformi: Non risultano decisioni difformi

La Corte di Cassazione, con sentenza del 9 settembre 2019 n. 22442, ha precisato che il sottoscala, in quanto proiezione delle scale, si presume rientri, ex art. 1117 c.c., tra le parti comuni dell’edificio condominiale, a meno che tale presunzione legale sia superata dalla prova di un titolo contrario, la cui esistenza deve essere dedotta e dimostrata dal condomino che vanti la proprietà esclusiva dello stesso sottoscala.

La vicenda

Un condomino, proprietario di alcuni locali siti al piano terra di un caseggiato si era impossessato di un’area di proprietà condominiale (un sottoscala), costruendovi un bagno.

Di conseguenza gli altri condomini si rivolgevano al Tribunale della loro città per richiedere la rimozione del manufatto e la restituzione della parte comune alla collettività condominiale.

Il convenuto si costituiva e resisteva alla domanda, eccependo l’intervenuta usucapione dell’area comune.

Il Tribunale di Napoli rigettava la domanda del condominio ed accoglieva, invece, l’eccezione di usucapione proposta dal titolare dei locali siti al piano terra.

La Corte d’Appello, dopo aver esaminato i titoli di proprietà e valutato la CTU, era venuta a conoscenza che il costruttore si era riservata la proprietà di alcuni sottoscala ma non di quello oggetto di lite, che si doveva considerare parte comune.

In ogni caso dalla stessa documentazione era emerso che l’esercizio di fatto del potere esclusivo sul sottoscala non si era protratto per venti anni.

Alla luce di queste informazioni i giudici di secondo grado condannavano le eredi del titolare dei locali al piano terra (nel frattempo deceduto) alla restituzione all’uso comune del sottoscala condominiale.

Secondo la Cassazione – che ha confermato le ragioni del condominio – è pacifico che il sottoscala, in quanto proiezione delle scale, rientri tra le parti comuni dell’edificio condominiale, a meno che non esista un titolo contrario alla presunzione di comunione sancita dalla norma dell’art. 1117 c.c.

In particolare, secondo i giudici supremi, al fine di stabilire se sussista detto titolo contrario, occorre fare riferimento all’atto costitutivo del condominio e, quindi, al primo atto di trasferimento di un’unità immobiliare dell’originario proprietario ad altro soggetto.

Pertanto, se in occasione della prima vendita la proprietà di un bene potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni risulti riservata ad uno solo dei contraenti, deve escludersi che tale bene possa farsi rientrare nel novero di quelli comuni.

Grava, però, su colui che rivendica l’acquisto della proprietà esclusiva di una porzione comune, l’onere di provare che questa venne avocata a sé dal venditore col primo atto di frazionamento.

In assenza del titolo contrario, idoneo a superare la condominialità del sottoscala, bisogna ritenere che tale parte sia di natura condominiale.

Questa conclusione – come notano i giudici supremi – era confermata dal fatto che il regolamento di condominio menzionava, tra le proprietà esclusive della società costruttrice, i box sottostanti al primo rampante di tutte le scale del caseggiato, ad eccezione di quella soprastante il sottoscala oggetto di lite che doveva, pertanto, ritenersi condominiale.

In ogni caso la Cassazione, in sintonia con i giudici di secondo grado, non ritiene che il titolare dei locali al piano terra abbia usucapito il bene comune, non essendo riuscito a provare il momento iniziale del possesso utile per usucapire, né la decorrenza del ventennio.

La presunzione di proprietà comune di cui all’art. 1117 c.c.

Per stabilire quali siano le parti comuni di un condominio occorrerà prima di tutto esaminare quanto risulta dal titolo.

Infatti, affinché possa operare, ai sensi dell’art. 1117 c.c., il cosiddetto diritto di condominio, è necessario che sussista una relazione di accessorietà fra i beni, gli impianti o i servizi comuni e l’edificio in comunione, nonché un collegamento funzionale fra primi e le unità immobiliari di proprietà esclusiva.

Pertanto, qualora, per le sue caratteristiche funzionali e strutturali, il bene serva al godimento delle parti singole dell’edificio comune, si presume – indipendentemente dal fatto che la cosa sia, o possa essere, utilizzata da tutti i condomini o soltanto da alcuni di essi – la contitolarità necessaria di tutti i condomini su di esso.

È importante sottolineare che l’art. 1117 c.c. prevede – all’interno del suo testo – un elenco di beni ed impianti, che, in funzione di ciò, vengono qualificati come condominiali.

Relativamente a tale lista di cose, la giurisprudenza ha definitivamente chiarito che l’elenco di beni/impianti, contenuto nell’art. 1117 c.c., non è tassativo e ha funzione meramente esemplificativa (Cass. civ. sez. II, 5 marzo 2015, n. 4501).

I beni elencati (tra cui rientrano anche le scale e quindi anche i sottoscala) hanno sicuramente natura condominiale, che può essere esclusa non già con qualsiasi mezzo di prova (come sarebbe nell’ipotesi di presunzione), ma solo in forza di un titolo specifico, inevitabilmente in forma scritta, riguardando beni immobili.

Il meccanismo, regolato dagli artt. 1117 e ss. c.c., si attua sin dal momento in cui si opera il frazionamento della proprietà di un edificio, a seguito del trasferimento della prima unità immobiliare dall’originario unico proprietario ad altro soggetto.

È da quel momento che deve intendersi operante la presunzione legale ex art. 1117 c.c. di comunione pro indiviso di tutte quelle parti del complesso che, per ubicazione e struttura, fossero – in tale momento costitutivo del condominio – destinate all’uso comune o a soddisfare esigenze generali e fondamentali del condominio.

La prova contraria: il titolo

L’art. 1117 c.c. indica una presunzione di comproprietà di aree e parti dell’edificio condominiale poste a servizio di tutti i condomini che può essere superata unicamente da un titolo contrario che, per essere valido, deve rivestire la forma scritta.

A tale proposito occorre considerare che se, in occasione del primo atto di vendita (c.d. atto pilota), la proprietà di un bene, potenzialmente rientrante nell’ambito dei beni comuni, risulta riservata ad uno dei contraenti, sarà tale atto a costituire la regola fondamentale relativa alla proprietà del bene, ad escludere, cioè, che il bene si possa far rientrare nel novero dei beni comuni: di conseguenza, ove in occasione di successive vendite di appartamenti dell’edificio, nulla si stabilisca in punto, non potrà scattare la presunzione di comunione in quanto già esclusa dal titolo contrario di cui all’atto di nascita del condominio.

È opinione pacifica che tale titolo contrario possa essere contenuto nel regolamento predisposto dal costruttore ed accettato da tutti i condomini e nulla esclude che possa essere contenuto in una deliberazione assembleare. Occorre, però, che tale decisione, che normalmente viene assunta a maggioranza sia, in questo caso, adottata col consenso unanime di tutti i partecipanti al condominio (c.d. assemblea totalitaria).

Vi potrebbero essere altri titoli validi, come ad esempio, un atto mortis causa, perché è possibile che il proprietario di un edificio con testamento attribuisca piani o appartamenti a persone distinte e regoli, tra i diversi beneficiari, la distribuzione delle cose necessarie all’uso comune in modo difforme da quanto stabilito dall’art. 1117 c.c.

Al contrario, il diritto di proprietà del singolo condomino non può, in assenza di altri e più qualificanti elementi, essere provato in base alla mera annotazione di dati nei registri catastali, che hanno in concrete circostanze soltanto il valore di semplici indizi (Cass. civ. sez. II, 6 settembre 2019, n. 22339).

Allo stesso modo non sono titoli idonei il frazionamento-accatastamento e la relativa trascrizione, eseguiti a domanda del venditore costruttore (trattandosi di atto unilaterale), un regolamento del costruttore fatto dopo la vendita di tutti gli appartamenti, gli atti di acquisto delle unità immobiliari successive al primo, un disegno planimetrico allegato ad un atto notarile di compravendita se nello stesso atto non vi è una riserva di proprietà a favore dell’acquirente di una parte comune, le risultanze del regolamento assembleare e l’inclusione del bene nelle tabelle condominiali.

L’usucapione delle parti comuni

Ciascun condomino è libero di servirsi della cosa comune, anche per fine esclusivamente proprio, traendo ogni possibile utilità, purché non alteri la destinazione della cosa comune e consenta un uso paritetico agli altri condomini.

Questo, però, non significa che un singolo condomino non possa esercitare un possesso in contrasto con la previsione dell’art. 1102 c.c. arrivando ad usucapire una parte comune.

Del resto la Suprema Corte nel definire il concetto di «titolo contrario» ex art 1117 c.c. ha avuto modo di sottolineare come il condomino che pretenda l’appartenenza esclusiva di un bene indicato nell’art. 1117 c.c., debba fornire la prova della sua asserita proprietà esclusiva derivante da titolo contrario consistente anche nell’usucapione (Cass. civ. sez. II, 14 giugno 2017, n. 14809).

Tuttavia un condomino può usucapire la quota degli altri condomini senza che sia necessaria una vera e propria interversione del possesso, con la precisazione che però non è sufficiente che gli altri condomini si siano astenuti dall’uso del bene comune, ma occorre allegare e dimostrare di avere goduto del bene attraverso un proprio possesso esclusivo in modo inconciliabile con la possibilità di godimento altrui e tale da evidenziare una inequivoca volontà di possedere non più in qualità di condomino, ma in qualità di proprietario esclusivo, senza che vi sia stata alcuna opposizione da parte degli altri eventi diritto per tutto il tempo utile ad usucapire.

Così, ad esempio, colui che rivendica la proprietà di una pozione del giardino dovrà provare l’uso ultra-ventennale dell’area attraverso la recinzione della zona interessata chiusa con lucchetto, la costruzione di opere edili, la piantagione di alberi.

Del resto, il godimento esclusivo della cosa comune da parte di uno dei comproprietari, in ragione della peculiare ubicazione del bene e delle possibilità di accesso ad esso, non è comunque, di per sé, idoneo a far ritenere lo stato di fatto, così determinatosi, funzionale all’esercizio del possesso idoneo per usucapire, dato che è invece comunque necessaria, ai fini dell’usucapione, la manifestazione del dominio esclusivo sulla cosa da parte dell’interessato attraverso un’attività in modo chiaro contrastante ed in modo inoppugnabile incompatibile con il possesso altrui, perché l’onere della relativa prova grava su colui che invoca l’avvenuta usucapione del bene (Cass. civ. sez. II, 2 marzo 2017, n. 5335).

In ogni caso incombe su chi invoca l’acquisto per usucapione o ne eccepisce l’acquisto, l’onere di provare sia il momento iniziale del possesso ad usucapionem, sia la decorrenza del ventennio.

Bisogna considerare poi che il giudizio di usucapione deve essere introdotto nei confronti di tutti i condomini con apposita domanda.

In altre parole, non basta eccepire di aver usucapito un bene, magari sollevando apposita eccezione processuale all’interno di altro giudizio in cui si controverte della proprietà di un bene.

Bisogna considerare quindi che, qualora un condomino, convenuto dall’amministratore con azione di rilascio di uno spazio di proprietà comune, proponga (non un’eccezione riconvenzionale di usucapione, al fine limitato di paralizzare la pretesa avversaria, ma) una domanda riconvenzionale diretta a conseguire la dichiarazione di proprietà esclusiva del bene, viene meno la legittimazione passiva dell’amministratore rispetto alla controdomanda, dovendo la stessa svolgersi nei confronti di tutti i condomini, in quanto viene dedotto in giudizio un rapporto plurisoggettivo unico e inscindibile (Cass. civ. sez. II, 15 marzo 2017, n. 6649).

Nell’ipotesi in cui una tale domanda riconvenzionale venga proposta e decisa solo nei confronti dell’amministratore, il contraddittorio non può ritenersi validamente instaurato, e, in difetto di giudicato esplicito o implicito sul punto, tale invalida costituzione del contraddittorio può essere denunciata o essere rilevata d’ufficio anche in sede di legittimità.

Riferimenti normativi:

Art. 1117 c.c.

Cassazione civile, sez. II, sentenza 9 settembre 2019, n. 22442

 

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