Se il datore di lavoro impone una trasferta o un corso di formazione può essere mobbing?

Ai fini dell’accertamento di una condotta datoriale mobbizzante il lavoratore deve fornire la prova sicura su: 1) molteplicità dei comportamenti persecutori posti in essere in modo sistematico e prolungato; 2) evento lesivo della propria salute o della propria personalità; 3) nesso causale tra la condotta del datore di lavoro ed il pregiudizio alla propria integrità psico-fisica; 4) intento persecutorio unificante dei comportamenti lesivi lamentati (Trib. lav. Roma, 21 gennaio 2020, n. 542).

 

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi Cass. civ. sez. lav., 19 gennaio 2018, n. 1381

Cass. civ. sez. lav., 3 febbraio 2016, n. 2116

Cass. civ. sez. lav., 4 giugno 2015, n. 11547

Trib. lav. Milano 20 maggio 2000

Trib. lav. Milano 16 novembre 2000

Difformi Cass. civ. sez. lav., 21 maggio 2018, n. 12437

Cass. civ. sez. lav., 6 novembre 2018, n. 28244

Cass. civ. sez. lav., 14 settembre 2017, n. 21328

Il Tribunale del Lavoro di Roma, con la sentenza 21 gennaio 2020, n. 542, ha respinto la domanda di un lavoratore che, ipotizzando la violazione dell’art. 2087 c.c., aveva lamentato un danno da mobbing (o, in subordine, da demansionamento) in quanto nel corso del giudizio non erano stati adeguatamente provati i fatti posti a fondamento della richiesta risarcitoria.

Il Tribunale ha, in primo luogo, richiamato i consolidati principi giurisprudenziali secondo cui il mobbing è configurabile quando ricorrono i seguenti requisiti:

  1. a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere dal datore di lavoroo da superiori gerarchici in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
  2. b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
  3. c) il nesso causale tra la condotta del datore di lavoroo del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore;
  4. d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè l’intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.

Il riferimento normativo nelle vertenze di mobbing è solitamente l’art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Si tratta, come costantemente ricordato dalla Corte di Cassazione, di una norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative (v. per tutte, Cass. 29 marzo 2019, n. 8911).

L’ampiezza interpretativa dell’art. 2087 c.c. consente – peraltro – che non sia preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del danno qualora la pretesa risarcitoria sia stata fondata, in sede giudiziaria, sul mobbing anziché, più correttamente, su altri comportamenti illeciti quali, ad esempio, lo straining, ossia una forma attenuata di mobbing mancante del carattere di continuità delle condotte vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164).

Nel caso esaminato dal Tribunale di Roma, un lavoratore aveva illustrato la propria domanda richiamando una serie di episodi nel corso dei quali alcuni suoi superiori gerarchici avrebbero effettuato indebite pressioni per spingerlo a dimettersi.

Così, ad esempio, i suoi superiori gli avrebbero chiesto, se voleva evitare ripercussioni negative all’interno dell’azienda, di lavorare per un periodo all’estero o di partecipare ad un corso di formazione con l’esclusivo scopo di emarginarlo affinché si decidesse a fruire delle dimissioni incentivate messe a disposizione dal datore di lavoro.

Nel corso della causa il lavoratore aveva pertanto prodotto alcune mail intercorse tra le parti e chiamato a testimoniare i suoi ex colleghi, ma questi avevano categoricamente negato di avere mai invitato il ricorrente a dimettersi o di avere esercitato su di lui pressioni psicologiche o di avergli consigliato di accettare incarichi diversi ed ulteriori rispetto alle mansioni espletate.

Il Tribunale, valutate le testimonianze e giudicate prive di intento vessatorio le mail prodotte, ha però respinto la domanda del lavoratore sia sotto il profilo del mobbing sia sotto quello dello straining, pure preso in considerazione, per i motivi di cui si è detto sopra, malgrado il ricorrente non ne avesse fatto specifico riferimento nel suo ricorso.

In particolare, il Giudice ha ritenuto che le doglianze relative al corso di formazione ed al lavoro all’estero (riguardanti peraltro anche altri lavoratori) si inserivano nell’ordinaria dinamica organizzativa aziendale, che il lamentato demansionamento era in realtà inesistente e – soprattutto – che il lavoratore non aveva dato incontrovertibile dimostrazione di avere ricevuto minacce e/o pressioni.

Effettivamente, la configurabilità del mobbing o dello straining e del danno che può derivarne alla salute del lavoratore incontrano, nelle aule giudiziarie, la concreta difficoltà di provare i comportamenti illegittimi del datore di lavoro e la loro riconducibilità ad un preciso intento persecutorio.

In primo luogo, occorre tenere presente che non tutti i comportamenti che il lavoratore ritiene – in buona fede – mobbizzanti sono da considerarsi tali sotto il profilo giuslavoristico.

In giurisprudenza si è infatti ritenuto che la scarsità degli episodi vessatori e la loro assoluta normalità entro i limiti dello svolgimento del rapporto di lavoro non integri una fattispecie di mobbing (Trib. Milano 20 maggio 2000) e che non sussiste il carattere persecutorio degli atti asseritamene mobbizzanti quando gli stessi sono riferibili alla normale condotta imprenditoriale funzionale all’organizzazione produttiva (Trib. Milano 16 novembre 2000).

Secondariamente, i comportamenti discriminatori o vessatori sono evidentemente condotti in modo tale da non lasciare tracce documentali così che spesso l’unico strumento probatorio utilizzabile è la testimonianza che, per vari motivi (inclusa la possibilità di successive ritorsioni nei confronti del testimone), non è però concretamente praticabile o è comunque poco incisiva.

Al fine di ovviare a queste difficoltà, vista anche la facilità con cui attualmente ognuno è in grado di procurarsi strumenti di registrazioni audio o video (spesso incorporati nei telefoni cellulari), si è diffusa la pratica da parte dei lavoratori di registrare le conversazioni con il proprio datore di lavoro che si ritengono lesive dei propri diritti.

Si è così posto il problema se queste registrazioni siano legittime e producibili in giudizio e la soluzione è risultata per lo più positiva.

Così, per la Cassazione penale, non integra infatti il reato di interferenze illecite nella vita privata (art. 615-bis c.p.) la condotta di colui che, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva, in un’abitazione in cui sia lecitamente presente, filma scene di vita privata (nella fattispecie una lavoratrice domestica “in nero” aveva effettuato riprese fotografiche all’interno dell’abitazione del datore di lavoro) (Cass. sez. V Penale, sentenza 5 luglio – 13 novembre 2019, n. 46158).

Parimenti, la condotta del lavoratore che si sostanzia nella registrazione audio e video di conversazioni effettuate in orario di lavoro e sul posto di lavoro coinvolgenti altri dipendenti, ad insaputa degli stessi, qualora attuata al solo fine di far valere un diritto in sede giudiziaria, quale, nello specifico, tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, non viola la normativa sulla riservatezza dei dati personali di cui al D.Lgs. n. 196/2003 (Cass. 10 maggio 2018, n. 11322).

I Giudici di legittimità hanno in particolare sottolineato che: “”la condotta era stata posta in essere dal dipendente per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda, messa a rischio da contestazioni disciplinari non proprio cristalline e per precostituirsi un mezzo di prova visto che diversamente avrebbe potuto trovarsi nella difficile situazione di non avere strumenti per tutelare la propria posizione ritenuta pregiudicata dalla condotta altrui. Il tutto in un contesto caratterizzato da un conflitto tra il C. ed i colleghi di rango più elevato e da inascoltate recriminazioni relative a disorganizzazioni lavorative asseritamente alla base delle indicate contestazioni disciplinari …. in cui il reperimento delle varie fonti di prova poteva risultare particolarmente difficile a causa di eventuali possibili sacche di omertà come era dato apprezzare da quanto emerso in sede di istruttoria“.

Anche per Cass 29 dicembre 2014, n. 27424, la registrazione fonografica di un colloquio tra presenti, rientrando nella categoria delle riproduzioni meccaniche di cui all’art. 2712 c.c., ha natura di prova ammissibile nel processo civile, sicché la sua effettuazione, operata dal lavoratore ed avente ad oggetto un colloquio con il proprio datore di lavoro, non integra illecito disciplinare; infatti, tale condotta non può ritenersi lesiva del rapporto fiduciario tra lavoratore e datore di lavoro che concerne esclusivamente l’affidamento di quest’ultimo sulle capacità del dipendente di adempimento dell’obbligazione lavorativa.

La Corte di Appello di Milano ha infine ritenuto che tali principi non si applichino soltanto alle registrazioni effettuate dal lavoratore ma sono estensibili anche all’altra parte del contratto di lavoro che le utilizzi per i medesimi fini (nella fattispecie per l’esercizio del potere disciplinare) (App. lav. Milano 20 febbraio 2019, n. 369).

Riferimenti normativi:

Art. 2087 c.c.

Tribunale di Roma, sezione Lavoro, sentenza 21 gennaio 2020, n. 542

 

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