Il datore di lavoro è responsabile per l’infortunio se è stato rimosso un dispositivo di sicurezza?

Il datore di lavoro è responsabile per l’infortunio se è stato rimosso un dispositivo di sicurezza?

Il datore di lavoro è responsabile per l’infortunio se è stato rimosso un dispositivo di sicurezza?

Pronunciandosi su un ricorso proposto avverso la sentenza con cui la Corte d’appello aveva confermato la sentenza di primo grado che aveva ritenuto colpevole del reato di lesioni personali colpose conseguenti ad un infortunio sul lavoro occorso presso lo stabilimento di una società di cui l’imputato era direttore generale e consigliere, con funzioni di rappresentanza avanti l’A.G., la Corte di Cassazione (sentenza 15 maggio 2019, n. 20833) – nell’accogliere la tesi difensiva, secondo cui non vi era la certezza che l’imputato fosse realmente (o potesse realmente essere) a conoscenza della prassi aziendale di rimuovere le protezioni della macchina – ha diversamente affermato che il datore di lavoro é responsabile del mancato intervento finalizzato ad assicurare l’utilizzo in sicurezza di macchinari e apparecchiature provvisti di dispositivi di protezione e, in tal senso, del fatto di non esigere che tali dispositivi non vengano rimossi, ma, nel caso di infortuni derivanti dalla rimozione delle protezioni a corredo dei macchinari, anche laddove tale rimozione si innesti in prassi aziendali diffuse o ricorrenti, non si può ascrivere tale condotta omissiva al datore di lavoro laddove non si abbia la certezza che egli fosse a conoscenza di tali prassi, o che le avesse colposamente ignorate.

Prima di soffermarci sulla pronuncia resa dalla Suprema Corte, è opportuno qui ricordare che l’uso di macchine e attrezzature è riservato esclusivamente al personale appositamente incaricato che le utilizza correttamente. Gli elementi delle macchine, quando costituiscono un pericolo, devono infatti essere protetti o segregati o provvisti di dispositivi di sicurezza. La rimozione anche temporanea delle protezioni e dei dispositivi di sicurezza è vietata. Qualora, per necessità di lavoro, essi debbano essere rimossi, dovranno essere immediatamente adottate misure atte a mettere in evidenza e a ridurre al limite minimo possibile il pericolo che ne deriva. La rimessa in posto della protezione o del dispositivo di sicurezza deve avvenire non appena siano cessate le ragioni che hanno resa necessaria la loro temporanea rimozione. È peraltro vietato pulire, oliare o ingrassare a mano gli organi e gli elementi in moto delle macchine, a meno che ciò non sia richiesto da particolari esigenze tecniche, nel qual caso deve essere fatto uso di mezzi idonei ad evitare ogni pericolo.

Gli obblighi del datore di lavoro in materia sono stabiliti dall’art. 71, d. lgs. n. 81/2008, il quale, dopo aver stabilito che il datore di lavoro mette a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di legge, idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle direttive comunitarie, in particolare stabilisce espressamente al comma 4 che il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano: 1) installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso; 2) oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 70 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso e libretto di manutenzione; 3) assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni di cui all’articolo 18, comma 1, lettera z); b) siano curati la tenuta e l’aggiornamento del registro di controllo delle attrezzature di lavoro per cui lo stesso è previsto.

La normativa attualmente in vigore ha una portata generale, poiché si riferisce ai macchinari in generale, e mira a consentire al lavoratore di disporre di attrezzature di lavoro conformi ai requisiti richiesti dalla legge.

In particolare, il Testo Unico in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro stabilisce che: a) non è consentito rimuovere i dispositivi di sicurezza e pulire, manutenere o riparare macchinari in moto o in movimento. Se ciò dovesse essere assolutamente necessario, colui che deve eseguire il lavoro deve dotarsi delle adeguate misure di protezione; tutti i macchinari e tutte le attrezzature presenti all’interno dell’azienda devono essere periodicamente sottoposti a manutenzione ordinaria; c) è assolutamente indispensabile custodire e proteggere i componenti pericolosi dei macchinari che possono generare pericoli di taglio, compressione ed espulsione violenta di materiale. La persona responsabile di adeguare i macchinari e gli impianti alla normativa vigente è il datore di lavoro, il quale deve anche effettuare una valutazione dei rischi relativa all’utilizzo e all’efficienza delle attrezzature. Il datore di lavoro fornisce ai lavoratori le attrezzature necessarie per far fronte alle emergenze che si verificano in azienda, in modo da salvaguardare la salute di tutte le persone presenti all’interno degli spazi aziendali. Queste attrezzature sono destinate ad essere utilizzate in base alle direttive impartite dal datore di lavoro, il quale si adopera affinché siano sempre sottoposte a manutenzione, allo scopo di preservarne l’integrità e la sicurezza. L’attenzione prestata dal datore di lavoro ed il controllo che esercita all’interno dei suoi locali deve riguardare anche le postazioni dei lavoratori ed in particolar modo le posizioni che questi acquisiscono mentre adoperano macchinari ed utensili che servono per svolgere la propria mansione. In questo caso tutti gli strumenti utilizzati devono essere ergonomici.

Tanto premesso, nel caso in esame, la Corte d’appello aveva confermato la sentenza emessa dal Tribunale, con la quale l’imputato era stato condannato per il delitto di cui all’art. 590 c.p., con violazione dell’art. 71, comma 4 lettera a), D.lgs. n. 81/2008, contestato al medesimo in riferimento a un infortunio sul lavoro occorso presso lo stabilimento di una S.r.l., società di cui l’imputato era direttore generale e consigliere, con funzioni di rappresentanza avanti l’A.G. L’infortunio si verificava ai danni di un dipendente della suddetta impresa, nella quale l’imputato rivestiva la qualità di datore di lavoro. L’operaio era impegnato, al momento del sinistro, nella lavorazione di alcuni tubicini in plastica di colore rosso mediante alcune macchine spezzonatrici: i tubicini in plastica, una volta lavorati e tagliati dalla singola macchina con un’apposita lama, venivano raccolti in una scatola ove si posizionavano dopo essere transitati da uno scivolo della macchina stessa; durante l’operazione, l’operaio, per raccogliere un tubicino dalla scatola, infilava una mano nello scivolo e la spingeva fino al punto ove era posizionata la lama, così da subire l’amputazione della falange distale del terzo dito della mano destra: lesioni giudicate guaribili in 91 giorni. All’imputato era contestato di avere agito, nella sua qualità datoriale, senza adottare le necessarie misure di sicurezza, con particolare riguardo al dispositivo di protezione originariamente apposto sulla macchina (fissato con apposite viti) e idoneo a impedire che le mani e le dita potessero passare all’interno dello scivolo, mettendo a disposizione del lavoratore un macchinario non conforme alle normative di sicurezza in quanto privato del suddetto dispositivo di protezione, nonché omettendo di prendere le misure necessarie all’utilizzo in sicurezza dell’apparecchiatura. La Corte di appello aveva sostanzialmente ritenuto sussistente la violazione dell’art. 71 D.lgs. 81/2008 (che fa obbligo al datore di lavoro di verificare la sicurezza delle macchine introdotte nella propria azienda e di rimuovere le fonti di pericolo per i lavoratori addetti all’utilizzazione di una macchina). Al riguardo, secondo la Corte d’appello, il rischio nella specie concretizzatosi (derivante da un uso improprio e non sicuro delle macchine spezzonatrici) sarebbe stato conosciuto o quanto meno conoscibile da parte del datore di lavoro, ma non sarebbe stato da lui adeguatamente fronteggiato. In proposito, assumeva la Corte di appello che sarebbe stato comprovato che i lavoratori procedevano ricorrentemente, o per lo meno in modo non episodico, ad eseguire le lavorazioni senza la protezione della quale la macchina era corredata, soprattutto per poter rimuovere i tubicini in plastica rossa (che avevano la tendenza ad appiccicarsi sulle pareti del macchinario), e ciò sebbene la rimozione della protezione fosse manovra che richiedeva di agire sulle viti di fissaggio e nonostante il fatto che i lavoratori eseguissero tale manovra in modo da non farsi vedere dal personale dell’azienda preposto alla vigilanza, per come riferito in particolare da un teste. Da ciò, la Corte d’appello inferiva che il datore di lavoro, pur mettendo a disposizione degli operatori un’apparecchiatura provvista di un dispositivo di sicurezza, sarebbe stato a conoscenza della sopra descritta prassi elusiva (ossia del fatto che tale dispositivo veniva in alcuni casi rimosso) e, nonostante ciò, non avrebbe preteso che l’uso dell’apparecchiatura avvenisse in conformità alle norme d’impiego, omettendo di attivarsi per impedire che le macchine spezzonatrici fossero impiegate senza il dispositivo di protezione e che i dipendenti, anche solo accidentalmente, posizionassero le dita o le mani in corrispondenza della zona di taglio, come accadde alla vittima dell’infortunio. Ricorrendo in Cassazione, l’imputato sosteneva invece che non era ricavabile in alcun modo la certezza che egli fosse realmente (o potesse realmente essere) a conoscenza di tale prassi, pur volendosi ammettere che essa fosse davvero così diffusa e frequente come affermato dalla persona offesa e, in parte, da un teste, il quale aveva riferito che la rimozione della protezione veniva eseguita dai lavoratori in modo da non essere notati dal personale preposto al controllo, che non avrebbe tollerato tale condotta.

La Cassazione, nell’affermare il principio di cui in massima, ha accolto la tesi difensiva, in particolare rilevando che proprio quanto affermato dal teste costituiva un primo elemento deponente per la presenza in azienda di un sistema di vigilanza finalizzato ad assicurare l’espletamento “in sicurezza” delle lavorazioni. Ma, a parte tale aspetto, per la S.C., quand’anche volesse ritenersi assodato che i sorveglianti fossero a conoscenza della prassi anzidetta, la loro posizione di soggetti subordinati gerarchicamente all’imputato (nella sua qualità di direttore generale) non poteva dirsi ex se sufficiente a trarne la conclusione che l’imputato fosse necessariamente messo da costoro a conoscenza del fatto che i suoi dipendenti rimuovevano, più o meno abitualmente, la protezione posizionata sulle macchine spezzonatrici: il rapporto di dipendenza del personale di vigilanza dal datore di lavoro non costituisce infatti di per sé prova né della conoscenza, né della conoscibilità, da parte di quest’ultimo, di prassi aziendali (più o meno ricorrenti) volte ad eludere i dispositivi di protezione presenti sui macchinari messi a disposizione dei dipendenti. Tanto più che tale deduzione non risultava essere messa neppure in correlazione con la struttura e con le dimensioni della società di cui l’imputato era legale rappresentante: un elemento, questo, per la Cassazione, rimasto inesplorato nel giudizio di merito e che tuttavia avrebbe potuto avere un peso nella ricostruzione della conoscibilità di prassi aziendali contra legem da parte dell’imputato. Ora, la certezza che il datore di lavoro “sappia” può, in alcuni casi, inferirsi sul piano logico (ad esempio qualora la rimozione dei dispositivi di protezione sia univocamente frutto di una precisa scelta aziendale chiaramente finalizzata a una maggiore produttività); ma, quando – come in questo caso – non vi siano elementi di natura logica per dedurre la conoscenza o la certa conoscibilità di prassi aziendali incaute da parte del titolare della posizione di garanzia datoriale, é necessaria l’acquisizione di elementi probatori certi ed oggettivi che attestino tale conoscenza/conoscibilità. Diversamente opinando, si porrebbe in capo al datore di lavoro una responsabilità penale “di posizione” tale da eludere l’accertamento della prevedibilità dell’evento – imprescindibile nell’ambito dei reati colposi – e da sconfinare, in modo inaccettabile, nella responsabilità oggettiva.

Da qui, dunque, l’annullamento della sentenza, con rinvio alla Corte d’appello per nuovo giudizio.

Riferimenti normativi:

Art. 590 C.P.

Art. 71 D. Lgs. 9 aprile 2008, n. 81

Cassazione penale, sezione IV, sentenza 15 maggio 2019, n. 20833

 

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